By Renata Targetti Lenti, University of Pavia[1][2]
The article is based on a review of Scheidel's book “The Great Leveler: Violence and the History of Inequality from the Stone Age to the Twenty-First Century”, on the drivers of inequality reduction in European economic history. The core idea is that major disruptive events and epidemies were the main events levelling inequality, from ancient times to date. Other studies, focusing on more limited time and areas, confirm similar findings. Based on the analysis of the experience of European societies during the first months of Covid-19 pandemics and on its realistic projections for the next future, the article points to a sharp contrast with those findings. So far, the effects that can be identified operate towards increasing inequality, particularly when dimensions of inequality beyond income and wealth are considered, like equality of opportunities in health and gender disparity.
“La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi” di Walter Scheidel, professore di storia a Stanford, recentemente edito da “il Mulino”, costituisce un importante contributo al dibattito che è andato sviluppandosi negli anni sul livello e sui mutamenti della disuguaglianza nel breve e lungo periodo, all’interno dei singoli paesi e tra paesi. Scheidel propone nuove importanti intuizioni sul perché la disuguaglianza sia così persistente e perché sia molto difficile che possa diminuire. La concentrazione del reddito e della ricchezza ha proceduto infatti di pari passo con la civilizzazione: nel lungo periodo, in particolare, si osserva un’alternanza di fasi in cui la disuguaglianza cresce o comunque si mantiene elevata, e di periodi in cui si verifica una significativa riduzione. I fattori all’origine di queste fluttuazioni cicliche sono numerosi e tra loro interconnessi, oltre che non sempre facilmente identificabili. Si può tuttavia osservare che le disparità di reddito e di ricchezza sono aumentate quasi dovunque nei paesi occidentali. Oggi un limitatissimo numero di miliardari controlla infatti una quota pari alla metà della ricchezza mondiale. Scheidel osserva che, senza correttivi, nella maggior parte delle società odierne, come nell'antica Roma, si raggiungono livelli di disuguaglianza molto rilevanti. La quota di ricchezza dell'1% più ricco ha raggiunto infatti, negli Stati Uniti, un livello pari a quello che aveva nel 1929. Il rapporto tra la ricchezza di Bill Gates e quella del cittadino americano medio, ad esempio, è circa il medesimo di quello tra i più ricchi aristocratici romani nel 400 d.C. e la gran parte degli altri cittadini.
L'emergere di una disuguaglianza così elevata segue uno schema classico. La formazione di un surplus economico nelle società primordiali dà origine alle prime significative disuguaglianze. Forme di ricchezza trasferibili tra generazioni sorgono poi con la formazione delle élites. Scheidel presenta alcuni interessanti esempi a questo proposito, dalla Mesopotamia alle élites azteche, dalla Cina antica all’Impero Romano (Scheidel, 2019, pp. 87-109). Le politiche generalmente attuate dai paesi industrializzati per combattere la disuguaglianza, d’altra parte, raramente hanno dato risultati significativi. La ricchissima evidenza empirica fornita da Scheidel mostra come sia praticamente impossibile ridurre la disuguaglianza in tempo di pace, cioè adottando le tradizionali politiche fiscali e redistributive, ovvero in seguito ad un processo di rapido sviluppo. Negli ultimi 2000 anni si osservano alcuni “picchi”, molto simili tra loro, di estrema disuguaglianza: alla fine dell’Impero Romano, alla fine della società medievale e alla vigilia della Prima guerra mondiale. La ricerca di Scheidel spazia su di un arco temporale e territoriale amplissimo, dal Pleistocene all’Atene di Pericle, dai Maya alla Somalia di oggi, dalla Firenze del ‘400 alla Silicon Valley. L’evidenza empirica è stata presentata in occasione di una conferenza tenuta a Bologna nel novembre 2019 (Scheidel, XXXV Lettura de il Mulino, 23 novembre 2019). Proprio questa evidenza ha indotto “Thomas Piketty e Branko Milanovic a concludere che, prima della creazione del Welfare State, la storia dell’Occidente è sempre stata caratterizzata da un elevatissimo grado di disuguaglianza sociale e che le uniche temporanee eccezioni si sono verificate in seguito ad epidemie, guerre e rivoluzioni” (Marengo, 2020).
Nel corso di migliaia di anni solo quattro «forze», tutte connesse ad eventi traumatici, si sono mostrate efficaci nel ridurre la disuguaglianza. Le guerre, la caduta degli Stati, le rivoluzioni e le epidemie hanno prodotto effetti distruttivi sui patrimoni e sulle grandi ricchezze e di conseguenza hanno condotto anche ad un livellamento dei redditi. Scheidel documenta questa affermazione esplorando le relazioni causali tra questi quattro “eventi” e i meccanismi che producono una redistribuzione significativa della ricchezza, non solo nelle società occidentali ma anche in quelle molto più lontane nel tempo e nello spazio. È stata la moderna "Grande Compressione", che è iniziata con la guerra del 1914-18 e terminata con il Thatcherismo, argomenta Scheidel, che ha prodotto i più importanti effetti in termini di riduzione della disuguaglianza. La riduzione conseguente all’introduzione del Welfare State, le rivoluzioni comuniste in diversi paesi, le imposte elevatissime richieste per il finanziamento di due guerre mondiali sono stati fenomeni episodici, non facilmente ripetibili.
Un primo fattore di “livellamento” dei patrimoni e del reddito è individuato nelle rivoluzioni e nel crollo dello Stato. Quanto più uno Stato o un Impero è durato, tanto più ricca è stata la sua classe dominante. Il collasso statale inverte questo processo: quanto più drammatico è il collasso, tanto più sostanziale è il livellamento dei patrimoni e dei redditi. Anche le guerre contribuiscono a ridurre la disuguaglianza, principalmente quella patrimoniale. Generalmente si verifica un declino del valore del capitale e dei suoi rendimenti dovuto all'intervento del governo e ad altri effetti legati alla guerra. Vengono introdotte aliquote fiscali molto elevate per redditi e proprietà. Si genera un processo inflazionistico che colpisce i detentori di titoli a reddito fisso: si può osservare addirittura una distruzione dei patrimoni immobiliari e/o dei capitali investiti nelle fabbriche. Nelle moderne società industriali di tipo capitalistico, dove generalmente non si sviluppano rivoluzioni e conflitti bellici, è dunque inevitabile che si manifestino elevati livelli di disuguaglianza, come stiamo osservando oggi. La disuguaglianza è probabilmente il prezzo da pagare per la stabilità politica e sociale e la libertà di mercato. È molto difficile che in un prossimo futuro, almeno nei paesi industrializzati, si verifichino quelle catastrofi che, per Scheidel, sole hanno la capacità di “livellare” la disuguaglianza.
Anche gli effetti delle epidemie vengono considerati analoghi a quelli delle guerre e delle rivoluzioni in termini di riduzione della disuguaglianza. Una delle evidenze empiriche presentate da Scheidel (Figura 1) si riferisce alle tendenze della disuguaglianza in Europa nel lungo periodo dal 7000 a.C. al 2000. La variabile indipendente è un indice di Gini calcolato sulla ricchezza “stimata” dei diversi paesi europei (Scheidel, p.118). Le pandemie considerate sono: la peste del VI/VIII secolo, la peste nera o morte nera del XIV/XV secolo e le pandemie sviluppatesi in seguito alla scoperta dell’America nel XVI/XVII secolo.
Studi analoghi sono giunti alle stesse conclusioni per altre aree geografiche come Spagna, Germania e Impero Ottomano. In particolare, lo storico economico Guido Alfani (2015) mostra come nell’Italia settentrionale le epidemie di peste del XIV e del XVII secolo furono seguite da decenni di sensibili riduzioni della disuguaglianza del reddito e della ricchezza. Il meccanismo è sempre stato simile. Tutte le epidemie del passato causarono un numero di morti molto elevato e di conseguenza una forte contrazione dell’offerta di lavoro. “Si stima che la “peste nera” del ’300 abbia causato la morte di circa un terzo della popolazione europea, colpendo in modo piuttosto omogeneo tutte le fasce di età di una popolazione peraltro in media molto giovane” (Marengo, 2020). In seguito alla diminuzione dell’offerta di lavoro si innestava un meccanismo di tipo “classico”, ben illustrato da Ricardo (Cipolla, 1989). Come conseguenza della diminuzione della popolazione in età lavorativa aumentavano i salari reali. Verso la metà del XV secolo “i salari reali degli operai non qualificati erano raddoppiati, mentre erano aumentati poco meno quelli dei mastri artigiani” (Scheidel, p.123). Questo meccanismo, unitamente alla distruzione della ricchezza, si traduceva in una riduzione della disuguaglianza (Figura 1).
Figura 1. Tendenze di lungo periodo della diseguaglianza in Europa. Fonte: Scheidel, p.118
Cercare di paragonare la recente pandemia e le esperienze passate sembra essere del tutto arbitrario. Numerosi sono infatti i fattori all’origine delle differenze sia in termini di variabili da prendere in considerazione sia di effetti negativi dal punto di vista demografico e sanitario, sia positivi in termini di riduzione della disuguaglianza. La variabile per misurare la disuguaglianza, per Scheidel, è un indice di Gini della concentrazione dei redditi e/o della ricchezza. Una pandemia come la peste o la peste “nera” produceva una distruzione dei patrimoni, fisici e finanziari. Erano i ceti più ricchi ad essere maggiormente colpiti. Il secondo fattore che contribuiva alla riduzione della disuguaglianza era l’aumento dei salari reali. Non sembra che la recente pandemia dovuta alla diffusione del Covid-19 possa produrre effetti analoghi in termini di riduzione della disuguaglianza.
Si può avanzare però una importante riserva metodologica sulla variabile che generalmente gli studi presentati prendono in considerazione per misurare la diseguaglianza, che è un concetto multidimensionale e non solo unidimensionale. La definizione di eguaglianza e diseguaglianza può infatti differire in relazione alla variabile assunta come riferimento (reddito, ricchezza, tenore di vita, condizioni di salute, utilità, felicità, opportunità), cosicché la definizione in termini di una variabile può divergere anche in modo significativo da quella che fa riferimento ad un’altra. Il concetto di disuguaglianza preso in considerazione dai numerosi studi sugli effetti economici delle pandemie fa riferimento quasi esclusivamente al reddito e/o alla ricchezza. Non v’è dubbio che queste siano variabili «focali» in quanto più facilmente quantificabili, e comunque da considerarsi come «potere» sulle risorse necessarie a soddisfare i bisogni. Tuttavia, quando l’analisi è riferita ad una pandemia, e dunque a un fenomeno che ha effetti sanitari e demografici, occorre definire la disuguaglianza facendo riferimento ad uno spazio valutativo che comprenda anche un insieme di fattori sociali, politici ed economici.
In questo caso la disuguaglianza deve essere intesa in senso molto ampio, cioè come differenza di “opportunità” di cui ogni individuo può godere rispetto agli altri. Le diverse opportunità, in sintesi, concernono: accesso ai servizi sanitari, tasso di mortalità in relazione all’età, alimentazione adeguata e corretta, possibilità di continuare a svolgere il proprio lavoro e così via. Si tratta di differenze che generano profonde disuguaglianze, fino ad arrivare alla possibilità di sopravvivere o meno. Si tratta di variabili che solo molto parzialmente sono connesse al reddito o ai patrimoni. Dipendono invece dalle caratteristiche individuali (età, sesso, stato di salute pregresso, assenza di malattie invalidanti), ma anche dalla localizzazione (assenza di specifici focolai della malattia). L’esistenza di ospedali e/o presidi sanitari territoriali, di adeguate misure di controllo e prevenzione, di terapie adeguate caratterizza e condiziona la diversa capacità individuale di far fronte alla malattia. L’esistenza o meno di questi fattori rende molto più complessa l’analisi degli effetti della recente pandemia sulla disuguaglianza.
Una prima, molto provvisoria valutazione suggerisce che siano state alcune categorie a pagare il prezzo più alto: anziani, abitanti in località con focolai, poveri e lavoratori in nero o stagionali, commercianti. Le differenze di “opportunità” pre-pandemia rischiano di essere amplificate e non certamente ridotte alla fine della stessa. Alcune categorie come gli anziani sono state praticamente decimate. L’epidemia di Covid-19 non sembra invece avere alcun impatto rilevante sulla forza lavoro: la mortalità resta comunque bassa e riguarda quasi interamente anziani non più in età lavorativa. La grande maggioranza dei positivi in età lavorativa presenta sintomi lievi o medi (Marengo, p.1). Infine è noto che, per motivi non ancora spiegati, esiste un forte bias di genere: circa due terzi delle vittime sono uomini e solo un terzo donne.
Le classi sociali più basse sono più esposte al coronavirus e ne subiscono le conseguenze più gravi. È questa una disuguaglianza di salute difficilmente giustificabile. Quanti svolgono ruoli dirigenziali e di natura intellettuale (esclusi, naturalmente, i medici), assieme alla stragrande maggioranza dei colletti bianchi (tecnici ospedalieri e personale infermieristico esclusi), hanno continuato a svolgere il proprio lavoro a casa e, comunque, in ambiente protetto. “Non è stato così per un numero non marginale di componenti delle classi operaie, soprattutto quelli con rapporti precari di impiego che lavorano in microimprese a basso livello di sindacalizzazione. Per molti versi, la maggiore esposizione di tutti costoro al contagio si configura come una conseguenza, forse ineliminabile, della divisione sociale e tecnica del lavoro e della configurazione della struttura produttiva italiana” (Costa, Schizzerotto, 2020).
Molte persone, alla fine della pandemia, si troveranno ad essere più povere, e non saranno certo le classi più abbienti, cioè quelle che, in molti casi, hanno avuto accesso alle cure migliori. “I ‘poveri’ – e, soprattutto, i molto poveri – per varie ragioni (ad iniziare dallo scarso ricorso alla prevenzione) presentano peggiori condizioni di salute e, in particolare, contraggono in età più giovane quelle malattie croniche che accrescono enormemente la probabilità che l’esito del contagio sia la morte” (Costa, Schizzerotto, 2020).
Le conseguenze del lockdown uniformemente adottato in tutto il paese non saranno inoltre uniformi. Colpiranno cioè di più chi era già in una situazione di svantaggio. Questi effetti si stanno già manifestando. La crescita della disoccupazione produrrà una riduzione dei salari reali per alcuni anni. Pertanto il principale, e forse unico, effetto positivo delle epidemie, e cioè la riduzione della disuguaglianza nella distribuzione personale del reddito e della ricchezza, questa volta non si verificherà. Aumenterà non solo la disoccupazione, ma anche il precariato, principalmente quello giovanile. Anche “l’inevitabile maggiore indebitamento dello Stato graverà sui giovani e giovanissimi che sono già stati penalizzati o trascurati dalle politiche pubbliche degli ultimi decenni. La crescita della disoccupazione quasi certamente colpirà le donne più degli uomini, mentre la loro più alta resistenza al virus avrebbe potuto al contrario favorirne una maggiore partecipazione al mondo del lavoro. Quest’ultima sarà ulteriormente penalizzata dalla chiusura delle scuole e delle case di riposo, causando per le donne un ulteriore aggravio di lavoro domestico e di cura” (Marengo, p.3).
Un altro aspetto che differenzia la pandemia da Covid-19 dalle altre è la diversa diffusione del virus dal punto di vista geografico, in relazione alla diversa concentrazione industriale ed urbana, nonché dell’intensità delle relazioni con l’estero. Il caso della Val Seriana è emblematico. Ma anche quello delle città più ricche come Milano, New York, Londra, Parigi e Madrid. La correlazione a livello provinciale tra incidenza del virus e Pil pro-capite sembra essere altissima. Da ciò, tuttavia, non segue che vi sia stata una riduzione della disuguaglianza all’interno di questi territori. Potrebbe essere diminuita quella tra territori ma non quella all’interno. Questa è un’ipotesi che dovrebbe essere verificata. Nel caso di questa pandemia, poi, non sembra essersi per il momento verificata una significativa diminuzione dei rendimenti del capitale. È probabile che, come già è accaduto durante la crisi del 2008, i percettori di redditi più elevati (l’1%) mantengano la propria posizione, o addirittura la rafforzino. Ma, soprattutto, è degno di attenzione il fatto che, diversamente da altre crisi con origini strettamente economiche, l’andamento dei valori di Borsa non sembra condurre a quella perdita di valore capitale che in passato ha fatto sì che fasi negative come questa portassero alla riduzione delle distanze tra i più ricchi e il resto della società (Franzini, 2020).
Bibliografia
A.A.V.V. (2020), Category Archives: Disuguaglianze, Menabo’ di Etica e Economia, aprile 2020, https://www.eticaeconomia.it/temi/articoli/disuguaglianze/
Alfani G. (2015), Economic Inequality in Northwestern Italy: A Long -term View (Fourteenth to Eighteenth Centuries), in “Journal pf Economic History”, LXXV, n.4, pp.1058-1096.
Cipolla C.M. (1989), Miasmi ed umori. Ecologia e condizioni sanitarie in Toscana nel Seicento, Il Mulino, Bologna.
Costa G., Schizzerotto A. (2020), Se la pandemia accentua le disuguaglianze di salute, Lavoce.info, 7 aprile 2020, https://www.lavoce.info/archives/65256/se-la-pandemia-accentua-le-disuguaglianze-di-salute/
Franzini M. (2020), La pandemia non è uguale per tutti, Menabo’ di Etica e Economia, 24 Aprile 2020
Marengo L. (2020), Perché questa epidemia non diminuirà la disuguaglianza, Sbilanciamoci!, 21 Aprile 2020, https://sbilanciamoci.info/perche-stavolta-lepidemia-non-diminuira-la-disuguaglianza/
Scheidel W. (2019), La grande livellatrice. Violenza e diseguaglianza dalla preistoria a oggi, Il Mulino, Bologna.
[1] Questa breve nota è stata originariamente sollecitata dal Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Pavia (DSPS) Enrica Chiappero Martinetti che qui ringrazio.
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