By Ignazio Musu, Professore emerito di Economia politica nell'Università di Venezia
Synthesis
The proposal of the Nobel Price Joseph Stiglitz sounds reasonable in principle, but difficult to implement in practice. The legal precedent referred to by the Nobel laureate is the “Shrimp-Turtle case”, when US won an appeal at WTO against Thailand in relation to a violation of the Convention on International Trade of Engendered Species (CITES). However, there are two major differences: firstly, in the case of the “Shrimp-Turtle case” both US and Thailand where members of the CITES, whereas US is not currently member of the Paris Agreement; second, in the case of the “Shrimp-Turtle case” there had been an explicit violation of CITES, whereas it is not fully clear which would be the formal violation in the case of the Trump administration (a free-riding on climate change? An increase in CO2emissions?). Overall, it would be advisable for China, Europe and US to find a collaborative solution to an important problem such as global climate change. It must also be reminded that even in the case of the “Shrimp-Turtle case” the WTO had asked for a collaborative solution to the protection of marine turtles.
Il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha recentemente sostenuto che l’Europa e la Cina dovrebbero mettersi d’accordo per fare causa agli Stati Uniti presso la World Trade Organization (WTO) per il rifiuto dell’Amministrazione del Presidente Donald Trump di aderire all’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico.
Le regole della WTO sono effettivamente caratterizzate da un equilibrio tra il diritto di singoli membri ad adottare misure di regolazione, incluse restrizioni al commercio, per conseguire obiettivi legittimi, quali la protezione della vita e della salute di uomini, animali e piante, e la protezione delle risorse naturali, e i diritti di altri membri al rispetto delle regole fondamentali dell’organizzazione sulla libertà del commercio internazionale.
In particolare l’articolo XX del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) prevede esplicitamente un certo numero di situazioni nelle quali misure di protezione ambientale quali quelle appena indicate possono essere adottate da singoli membri al di fuori dalle regole generali del GATT, purchè esse non vengano applicate in modo arbitrario e non vengano usate come forme nascoste di protezionismo.
L’operato della WTO conferma anche che il ricorso all’organizzazione da parte di alcuni membri può essere motivato dal non rispetto da parte di altri membri dei principi di protezione ambientale ai quali l’articolo XX del GATT fa riferimento.
Giustamente Stiglitz cita il caso degli inizi di questo secolo, noto come “Shrimp-Turtle case”, nel quale gli Stati Uniti hanno vinto il ricorso alla WTO contro la Tailandia, motivato dall’accusa a quel paese di violazione della Convention on International Trade of Engendered Species (CITES) per aver permesso che per la pesca dei gamberi venissero usate reti che danneggiavano anche la specie in pericolo delle tartarughe marine.
Agli Stati Uniti la WTO ha riconosciuto il diritto di bloccare l’importazione di gamberi dalla Tailandia, sostenendo peraltro – ricorda Stiglitz - che le restrizioni alle importazioni vanno applicate in modo uniforme a tutti i paesi che violano la Convenzione sulle Specie Protette e non solo alla Tailandia
Andrebbe anche ricordato che in occasione di quella disputa la WTO ha sollecitato le parti in conflitto a rafforzare la collaborazione, cercando di arrivare a una soluzione cooperativa per la protezione delle tartarughe marine.
Ora non c’è dubbio che l’atmosfera, in quanto minacciata da eccessive emissioni di carbonio causa del danno costituito da un cambiamento climatico che sta assumendo dimensioni catastrofiche, possa essere considerata come una risorsa naturale esauribile; sotto questo profilo l’Accordo di Parigi potrebbe essere considerato una convenzione la cui violazione darebbe diritto a membri dell’accordo di agire presso la WTO contro altri membri dell’accordo stesso che fossero ritenuti responsabili della violazione.
Ma qui viene il primo problema. Nel caso “Shrimp-Turtle” sia la Tailandia sia gli Stati Uniti erano membri della CITES; ma gli Stati Uniti non sono oggi più membri dell’Accordo di Parigi. Sarebbe quindi necessaria da parte WTO una esplicita pronuncia che l’atmosfera a bassa concentrazione di carbonio è una risorsa naturale di tale rilevanza in sé che un suo sfruttamento eccessivo anche da parte di paesi che non aderiscono all’Accordo di Parigi può essere ritenuto motivo di restrizioni commerciali da parte di paesi membri della WTO contro altri paesi membri della stessa organizzazione.
C’è poi un altro problema. Nella controversia “Shrimp-Turtle” c’era uno specifico caso di violazione della CITES, l’uso di reti dannose per la tartarughe. Quale sarebbe il caso di violazione nella possibile accusa presso la WTO di “free-riding” sul cambiamento climatico? Un aumento delle emissioni di CO2?
Ma qui potrebbero aprirsi varie possibilità di reazione da parte degli Stati Uniti. Per esempio, l’Europa ha ridotto le emissioni per effetto di azioni appropriate di mitigazione oppure per effetto di un rallentamento economico? E poi non tutti i paesi dell’Europa sono impegnati nello stesso grado nelle politiche di mitigazione; in alcuni paesi le emissioni sono diminuite ma in altri sono aumentate. Per quanto riguarda la Cina, si potrebbe argomentare che la Cina ha promesso una riduzione delle emissioni ma non la registra ancora; oppure che la Cina, in accordo con al Russia, intende sfruttare proprio il riscaldamento globale per l’apertura di una Artic Silk Road per il collegamento marittimo con l’Europa.
Le cose quindi non sembrano così semplici. Sembra che Stiglitz si sia anche riferito alla proposta fatta nel 2017 dal Presidente francese Macron di una “border carbon tax” a livello europeo come strumento per combattere il cambiamento climatico. Questa troverebbe giustificazione nella necessità di mettere le imprese europee nella condizione di fronteggiare, con regole comuni, la concorrenza di imprese straniere che operano in paesi con vincoli ambientali assenti o comunque meno stringenti di quelli in vigore in Europa.
La “border tax” è ammessa dalla WTO con la regola che un paese dovrebbe imporre sui beni importati una tassa allo stesso livello al quale la tassa viene imposta sui beni interni. Nel caso specifico di una “border carbon tax” l’Unione Europea dovrebbe imporre una tassa sulla base del contenuto di carbonio sui beni importati da paesi che non mettono un prezzo sull’uso del carbonio ma in modo tale che essi vengano tassati allo stesso modo con cui vengono tassati i beni interni.
Ma, almeno per il momento, in Cina non c’è una “carbon tax” interna e neanche in Europa è in vigore una “carbon tax”, ma un sistema di permessi negoziabili di emissione di carbonio, l’EUETS (European Union Emission Trading System) che però non copre tutte le fonti di emissione di carbonio, ma solo le più importanti (circo 12 mila che rappresentano poco meno della metà delle emissioni). Restano fuori le emissioni da settori importanti come imprese medio-piccole, gli edifici, i mezzi di trasporti e l’agricoltura.
Per i settori nei quali è in vigore l’EUETS, gli importatori dovrebbero acquistare un ammontare di permessi pari alla quantità di emissioni create dalla produzione dei beni importati; ma per tutti gli altri beni per i quali non è in vigore l’EUETS non c’è in Europa una “carbon tax”, e quindi non c’è un prezzo interno per le emissioni di carbonio. Sembra allora che, secondo le regole WTO, in Europa solo sui beni per i quali c’è un prezzo interno sulle emissioni di carbonio si potrebbe imporre una “border carbon tax”. Certo le cose sarebbero diverse se Europa e Cina decidessero di adottare una “carbon tax” anche al loro interno.
Insomma, la proposta di Stigliz appare ragionevole sul piano di principio, ma piena di problemi sul piano della attuazione pratica.
Questo non significa che Cina e Europa dovrebbero rinunciare a riportare gli Stati Uniti in una logica di collaborazione su un problema di tale rilevanza globale come il cambiamento climatico.
Ma forse la logica potrebbe essere quella che oggi Cina e Stati Uniti sembrano voler seguire nel superamento di una guerra commerciale che non conviene a nessuno dei due paesi. Come sarebbe auspicabile che Cina e Stati Uniti da un lato e Cina e Europa dall’altro superassero le tensioni sul terreno della rivoluzione digitale e dell’intelligenza artificiale per concentrarsi su un approccio comune ai grandi problemi globali su questo terreno, dalle minacce all’occupazione, ai rischi di eccessivo potere monopolistico, alla disuguaglianza, così sarebbe auspicabile che Europa, Cina e Stati Uniti ritrovassero un impegno comune per riconoscere e superare i costi di un grave problema globale come quello del cambiamento climatico. Forse l’Europa potrebbe fare qualcosa in questo senso.