di Elena Vallino, Università di Torino
Questo numero di Economie Emergenti riguarda le problematiche e le politiche ambientali nei cosiddetti paesi emergenti. In tali paesi preoccupanti livelli di inquinamento ambientale sono stati associati alla rapida crescita economica, sollevando la preoccupazione di scienziati internazionali e della società civile. I paesi emergenti dovrebbero delineare delle politiche che affrontino il trade-off fra crescita economica ed inquinamento se vogliono evitare danni ambientali ulteriormente gravi, che potrebbero, a loro volta, limitare la crescita economica. Un utilizzo appropriato di incentivi come sussidi, tasse, e politiche dei prezzi può promuovere efficienza nell’utilizzo delle materie prime, ridurre l’inquinamento che deriva dalle attività di produzione e consumo e generare un miglioramento da un punto di vista ambientale senza compromettere la crescita.
Una rapida crescita economica in alcune economie emergenti come India e Cina ha permesso una consistente riduzione della povertà, e, inoltre, ha rappresentato un supporto per l’economia globale nel periodo della recente crisi. Tuttavia sussiste il pericolo che tali paesi ripetano gli stessi errori passati dei paesi sviluppati, nei quali l’industrializzazione ha prodotto un consistente inquinamento ambientale che non è stato affrontato seriamente fino a quando non sono stati raggiunti livelli relativamente alti. Per esempio, da un lato tali economie stanno diventando sempre maggiormente responsabili delle emissioni globali di carbone, contribuendo in tal modo al cambiamento climatico. Dall’altro lato il danno ambientale all’interno di tali paesi sta diventando severo per quanto riguarda l’inquinamento dell’aria e dell’acqua e lo sfruttamento delle risorse naturali.
Nel dicembre 2015 si è conclusa la XXI Conferenza delle Parti (COP 21) della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), generando il cosiddetto Accordo di Parigi. I paesi sono parti dell’Accordo attraverso piani nazionali di riduzione delle emissioni. E’ interessante osservare il ruolo svolto dalle economie emergenti in tale processo di negoziazione e in tale Accordo, in quanto queste non appartengono ufficialmente al gruppo delle economie industrializzate ma, al tempo stesso, il loro contributo all’inquinamento globale è in continuo aumento. In generale l’Accordo può essere analizzato lungo tre linee interpretative. Innanzitutto osserviamo i parametri scientifici utilizzati. Troviamo l’obiettivo di lungo termine di mantenere il riscaldamento globale del pianeta al di sotto dei 2°C, nonché l’impegno di compiere sforzi aggiuntivi per mantenerlo al di sotto dei 1,5°C. I paesi intendono raggiungere la “zero balance” entro il 2050. Sfortunatamente l’Accordo non specifica in dettaglio gli strumenti necessari per raggiungere gli obiettivi e considera gli impegni assunti anziché gli obblighi. Secondariamente notiamo la questione dell’equità. Utilizzando un approccio “bottom up”, ogni paese delinea il proprio piano volontario per la riduzione delle emissioni, in modo da permettere la differenziazione fra le capacità effettive e le possibilità di ogni paese. Tali piani implicano un’assunzione di responsabilità da parte dei paesi, anche se non è possibile garantire pienamente una coerenza ex-ante fra tutti i piani nell’ambito dello stesso obiettivo. La buona notizia è che l’Accordo di Parigi intende coprire 186 paesi e, di conseguenza, il 96 percento delle emissioni mondiali del 2010, mentre il Protocollo di Kyoto copriva soltanto il 14 percento delle emissioni globali. Infine, dobbiamo osservare se vi sono possibilità realistiche che l’Accordo sarà realmente implementato. Il protocollo di Copenhagen del 2009 conteneva obiettivi precisi e vincolanti sulla riduzione delle emissioni, ma soltanto per 39 paesi. Nell’Accordo di Parigi è coinvolto un numero molto maggiore di paesi, tuttavia molti aspetti non sono stati definiti su base vincolante, come ad esempio l’obbligo e l’accettazione da parte di ogni paese dei meccanismi MRV (“monitoring-reporting-verification”).
In questo numero i contributi di Ignazio Musu, e di Nicoletta Marigo insieme ad Augusto Ninni si focalizzano sull’Accordo di Parigi di Dicembre 2015. Evidenziano gli elementi che rappresentano misure innovative rispetto agli accordi precedenti sul clima, e descrivono il ruolo particolare dei paesi emergenti ed in via di sviluppo nel processo di negoziazione e negli impegni presi.
Marigo e Ninni pongono l’attenzione sulla Cina e sui suoi impegni emersi dall’Accordo nell’ambito di promozione di energia a basso consumo di carbone, efficienza energetica e trasporti sostenibili. Inoltre riflettono sulle implicazioni di tali potenziali politiche sui processi di sviluppo. Successivamente si focalizzano invece sui grandi paesi ASEAN, analizzando il loro contributo alle politiche volte alla mitigazione del cambiamento climatico in diversi scenari che implicano la presenza o meno di assistenza finanziaria da parte dei paesi industrializzati.
L’articolo di Giovanni Marin, Massimiliano Mazzanti e Marianna Gilli riguarda gli impatti dei consumi mondiali ed europei su quattro grandi paesi emergenti: India, Indonesia, Brasile e Cina. Osservano l’andamento delle variabili riguardanti le emissioni di gas serra, l’occupazione e la crescita economica fra il 1995 e il 2010.
Francesco Abbate e Virginia Vergero scrivono sul tema della gestione dei rifiuti solidi urbani in Myanmar, parlando di un progetto di cooperazione decentrata fra le città di Torino e Yangon in tale ambito. Analizzano i punti di forza e di debolezza del progetto in termini di capacity-building delle autorità locali, considerando le dimensioni istituzionali, tecniche e sociali.
Giorgio Brosio affronta anch’esso la dimensione urbana, focalizzandosi però sulle metropoli cinesi e sui cambiamenti degli incentivi politici e fiscali necessari per lo sviluppo di città sostenibili da un punto di vista ambientale in tale paese.