di Lino Sau, Università di Torino
La decisione di svalutare lo yuan renminbi a più riprese (deprezzamento del 4,6% in tre giorni!) presa dalla People’s Bank of China nel corso dell’estate (11-12-13 agosto scorso) ha riportato alla ribalta il tema scottante delle guerre valutarie tra Paesi. Come cercherò di argomentare, queste ultime sono oggi diverse da quelle che in passato hanno interessato i rapporti economico-politici tra Stati, è quindi opportuno introdurre l’argomento muovendo prima da un veloce excursus storico che inquadri il problema oggetto di analisi, per poi passare al caso concreto.
Durante il regime del gold standard i diversi Paesi si contendevano, attraverso le loro Banche Centrali, l’accaparramento di oro e di valute convertibili al fine di fronteggiare possibili shock esterni avversi. Questo tipo di politiche (adottate fino ai primi anni del ‘900), riducendo la liquidità internazionale, producevano effetti alquanto indesiderabili: i Paesi con deficit nelle partite correnti erano costretti ad attuare politiche deflazionistiche con pesanti effetti sulle grandezze reali che favorivano, tra l’altro, la trasmissione internazionale delle crisi stesse.
Il superamento del regime del gold-standard ha dato però il via, soprattutto nel corso degli anni ‘30, alle politiche di “beggar thy neighbour” (gabba il tuo vicino!) unitamente a politiche tariffarie e protezionistiche che scoraggiavano le importazioni. Le prime erano volte a favorire le esportazioni a colpi di svalutazioni competitive che avvenivano a scapito dei “vicini”. In questo caso le guerre monetarie si trasformarono in guerre commerciali che, come noto, aggravarono gli effetti di persistenza nella caduta del reddito e della occupazione durante la Grande Crisi. In alcuni casi, come in Germania durante la repubblica di Weimar, le guerre valutarie innescarono la spirale svalutazione/inflazione e provocarono fenomeni di iperinflazione con effetti politici destabilizzanti.
Con gli accordi di Bretton-Woods (1944), sorti sulla base del Piano White, e la creazione del gold exchange standard si era cercato poi di evitare che gli squilibri economici tra i paesi diventassero eccessivi, cercando di favorire il coordinamento internazionale delle politiche economiche. L’ FMI si sarebbe impegnato infatti ad aiutare i Paesi con forti disavanzi nelle partite correnti evitando, in questo modo, la riedizione di politiche economiche ispirate dal principio “mors tua, vita mea”, implicite nelle misure di svalutazione competitiva. Come noto, questa fase positiva (ed espansiva) nell’economia globale durata quasi una trentina di anni, cessò, sia per la scarsa cooperazione internazionale tra i Paesi che avevano sottoscritto gli accordi, sia, e soprattutto, perché il dollar exchange standard fu messo alle corde dalla insostenibilità di deficit crescenti nella bilancia dei pagamenti americana e dalla impossibilità di garantire la convertibilità del dollaro in oro, come lucidamente spiegato da Robert Triffin nel suo famoso paradosso.
Con l’abbandono di Bretton Woods e dei cambi fissi (1971) si entra quindi nella fase del cosiddetto non-sistema che qualcuno, forse non esagerando, ha definito della anarchia monetaria e finanziaria. Questo non-sistema ha lasciato infatti i singoli Paesi del tutto liberi nella gestione del tasso di cambio ed ha aumentato i privilegi del dollaro quale moneta di riserva internazionale; last but not least ha anche favorito la creazione di squilibri macroeconomici e finanziari globali e la possibilità che spillovers possano favorire il contagio e la propagazione a livello globale delle stesse crisi, come ci insegna la fase di instabilità finanziaria di questi anni.
E’ proprio questa instabilità strutturale che ha dato origine alle guerre valutarie recenti (sterlina/dollaro, euro/dollaro, euro/yen, ecc.); esse si consumano soprattutto con l’attuazione di manovre di politica monetaria fortemente espansive. Per esempio la Bank of England, dopo lo scoppio della crisi dei mutui sub-prime, ha acquistato titoli per un ammontare di 375 miliardi di sterline provocando un deprezzamento della valuta nazionale nei confronti del dollaro; nello stesso senso sono andate le due fasi della cosiddetta Abenomics in Giappone, la quale ha prodotto, nel 2014, un indebolimento dello yen sia verso l’euro che verso il dollaro. Queste misure di quantitative easing (QE) pur avendo nelle intenzioni (e con il placet del G-20, non trattandosi di vere e proprie svalutazioni competitive!) l’obiettivo diretto di favorire la crescita e l’occupazione, hanno l’effetto non secondario di voler rilanciare le esportazioni, attraverso un indebolimento della moneta interna (in verità, nel caso europeo il QE è stato giustamente proposto ed adottato da Mario Draghi anche, e soprattutto, per scongiurare la deflazione). C’è però un problema (o forse un paradosso) insito in queste battaglie valutarie: non si possono svalutare contemporaneamente tutte le valute, almeno una si deve rivalutare rispetto alle altre, inoltre tutti i paesi subiscono gli effetti di queste guerre valutarie tenuto conto della crescente globalizzazione economico-finanziaria.
Se veniamo ora alla Cina, occorre sottolineare come la Banca Centrale cinese abbia sempre mantenuto uno stretto controllo del tasso di cambio. Ogni giorno, a fine seduta, fissa la parità dello yuan, il cosiddetto «midpoint». Negli ultimi anni ha gradualmente allargato la banda di oscillazione della moneta: l’ultima manovra risale al marzo 2014, quando ha raddoppiato la banda dall’1% al 2%. Quando il cambio si avvicina dunque al limite del 2%, la Banca centrale interviene per evitare che esso venga superato.
Fino a questa estate la Cina aveva perseguito una politica di lenta (ma inesorabile) rivalutazione dello yuan tanto che la decisione di svalutare la moneta nazionale ha sorpreso molti Paesi e ha favorito l’instabilità monetaria e finanziaria globale. Questa manovra è stata poi seguita da misure di politica monetaria quali il taglio del tasso ufficiale di sconto e la riduzione del coefficiente di riserva obbligatoria per le banche. Da questo punto di vista la guerra valutaria sembrerebbe quindi avere i connotati di una “twin-war” essendo combattuta sia con misure proprie del secolo scorso (svalutazione competitiva del cambio) che con misure di politica monetaria espansiva che sono, come ho ricordato, una proxy della vera e propria “currency war”. Certo il calo delle esportazioni dell’8,3% nel mese di luglio, il rallentamento della crescita, unitamente alla brusca caduta della borsa di Shanghai (invertendo la fortissima capitalizzazione precedente) hanno certamente avuto un ruolo non secondario sulla decisione di svalutare.
Per completezza ed onestà bisogna però ricordare come, all’interno del FMI, molti analisti si siano mostrati più cauti nel parlare di vera e propria guerra valutaria, collegando la strategia cinese al tentativo di lasciare che il cambio segua i fondamentali di mercato in vista della promozione dello yuan nel paniere per la determinazione dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP).
Certamente il fatto che una economia come quella cinese (e la sua moneta) non vedano, ad oggi, riconosciuto il ruolo che spetta loro all’interno del FMI costituisce un grave anomalia e quindi tutti gli sforzi per andare in questa direzione sono alquanto necessari, tuttavia il problema resta, a mio avviso, un altro ed è collegato al dibatto (mai seriamente affrontato!) sul non-sistema monetario-finanziario al quale mi riferivo sopra e sul quale si regge l’economia globale dopo il crollo degli accordi di Bretton Woods. Senza questa inerzia nell’ordine monetario e finanziario globale, non si sarebbero infatti create le condizioni per una ri-edizione, in chiave moderna, delle guerre valutarie.
Per capire se si tratta di una vera e propria guerra, basterà osservare se le Banche centrali di altri Paesi, in particolare di quelle che più esportano in Cina, seguiranno la strategia della People’s Bank of China. Quello che però è certo è il fatto che rublo, sol, ringgit malese, lira turca, real brasiliano, corona norvegese sembrano essere state tutte carte del domino che ha travolto le monete legate ai prezzi (calanti!) delle materie prime e del prezzo del petrolio di cui la Cina è grande importatore.
In uno dei suoi ultimi scritti per la Triffin Foundation, dal titolo “The ghost of bancor”, Tommaso Padoa Schioppa auspicava, riferendosi all’idea di Keynes relativamente alla costituzione di una vera e propria moneta internazionale (per l’appunto il bancor), un salto in avanti da parte del FMI e in generale della comunità economico-finanziaria internazionale (G-7, G-8,…G-20) affinchè il problema legato al cosiddetto privilège exorbitant del dollaro come moneta di riserva internazionale venisse superato perché, anche da ciò, dipende l’instabilità economico-finanziaria globale a cui mi sono riferito in questa nota. La creazione di una moneta internazionale terza, rispetto a quella emessa da un qualsiasi stato sovrano (o da un insieme di Stati), attraverso una rielaborazione dei DSP in questa direzione, potrebbe forse scongiurare in futuro revivals nelle guerre delle valute.